«Serio, riservato e con una forte interiorità; ma Gian Maria è stato anche un uomo vulnerabile, bisognoso di conferme», scrive Stefano Loparco nel libro L’ultimo sguardo. Vita e morte di Gian Maria Volonté in uscita in questi giorni di dicembre per le Edizioni Bietti con un’introduzione di Ilaria Floreano. Loparco dice molto senza avere la presunzione di raccontare tutto, scava nell’animo dell’attore e spinge il lettore a riflettere sull’ultimo tratto di strada percorso da Volonté. L’ultimo sguardo è un libro necessario, da leggere.
Intervista a Stefano Loparco
Stefano vive in provincia di Gorizia, a Cormons, al confine con la Slovenia. Ci conosciamo da tempo e nonostante la comune passione cinematografica non ci siamo mai incontrati, anche se a nostra discolpa va detto che ci separano quasi seicento chilometri. Lo raggiungo al telefono per intervistarlo e per riprendere un discorso iniziato sei anni fa all’uscita del mio libro.
Quando hai scoperto Volonté?
Ho cinquantacinque anni, come tanti della nostra età sono nato con il mito d’Indagine, anche se postumo per questioni anagrafiche. Ho sempre subito il fascino dell’uomo oltre che dell’attore, quel volto ha un fascino irresistibile.
Quando ho cominciato la carriera editoriale non ho potuto evitare di cimentarmi su Volonté anche se mi spaventava e mi spaventa ancora. Non è un caso che abbia fatto un lavoro molto contenuto rispetto all’oggetto di indagine. Mi spaventa nel senso che ho sempre nutrito riverenza e l’ho sempre visto come un attore monstrum.
L’ultimo sguardo mi è parso subito un titolo azzeccato.
Il mio è un libro fortemente autosuggestionato, è un testo che nasce dalla suggestione di indagare. Gian Maria muore come Ivo Levi, l’ultimo personaggio che ha interpretato per il cinema. Quindi non si può prescindere dal conoscere Volonté nell’atto di morte senza sapere chi sia stato per lui Ivo Levi, un aspetto che mi sembrava che gli fosse stato sottratto. Invece dato che i personaggi non lo attraversavano ma lo lo modellavano, mi è sembrato giusto tornare a quei giorni, a quel momento, rappresentare quel periodo, utilizzando anche delle suggestioni narrative.
Inoltre mi è parso che durante le riprese del film l’uomo fosse coinvolto in un dolore; ho letto attraverso le immagini un dolore esistenziale feroce. La chiave di lettura del libro è una foto che io amo, scattata da Josef Koudelka, ma che non è una foto di scena: c’è un uomo che soffre, che sta male. Ho unito questi punti, così facendo mi è sembrato di mettermi in cammino senza però avere l’intenzione di scrivere una biografia.
Attraverso il tuo libro ci si avvicina molto all’uomo.
Gian Maria come me, come te, ha avuto la necessità di ricostruire un senso, e mi è parso che lo avesse trovato nella famiglia, a Velletri con Angelica. È stata per me una scoperta paradossale che un uomo che nella mia mente rappresento imponente avesse come elemento di salvezza la sua dimensione intima, casalinga.
Scrivi: «Emarginato da un sistema cinematografico che mal lo sopporta, sempre meno in sintonia con la “pancia” del Paese, marginalizzato anche dal partito, Volonté sprofonda in uno stato di rassegnazione che dissimula il volto della depressione».
Al di là dell’incipit e dell’epilogo mi è parso che tutti gli elementi biografici sui quali io mi soffermo, la Maddalena, la politica, il padre Mario e il fratello Claudio, la malattia, la carriera artistica, alla fine si intrecciano. Ho scelto di rappresentarli perché mi sembrano dei fili che se uniti vanno a confluire in quello che è l’ultimo Gian Maria, un uomo fortemente disilluso, vittima di grandi e reiterate ingiustizie.
Gian Maria a Mostar, vedendo la distruzione, è stato sopraffatto dal dolore perché era un emotivo, non era un freddo. Quel dolore si ripercuote poi nelle foto stupende di Koudelka.
Il mio libro su Gian Maria è questo.
[Stefano Loparco, L’ultimo sguardo. Vita e morte di Gian Maria Volonté, Bietti, Milano, 2024]