La classe operaia va in Paradiso di Elio Petri, scritto con Ugo Pirro, ebbe un percorso di preparazione impegnativo che coinvolse anche Gian Maria Volonté.
Il film del 1972 fu preceduto da un’indagine con la macchina da presa voluta dal Comitato cineasti contro la repressione. Elio Petri e il direttore della fotografia Luigi Kuveiller andarono prima davanti ai cancelli della Fatme di Roma e poi in molte fabbriche del Piemonte e della Lombardia per incontrare studenti, operai, sindacalisti e dirigenti.
La classe operaia va in paradiso tra cinema e realtà
L’impresa più ardua fu ottenere il permesso di girare in un vero stabilimento. La scelta cadde sulla Falconi di Novara, una fabbrica di ascensori finita in amministrazione controllata per evitare il fallimento. La produzione affittò l’edificio dal tribunale e assunse come comparse operai e studenti. Si creò un singolare intreccio tra cinema e realtà. Gian Maria e altri elementi della troupe parteciparono a molte agitazioni, come il presidio davanti al carcere di Verbania durante le feste di Natale o l’occupazione del municipio di Novara il 9 gennaio 1971.
Per l’operaio della Classe operaia, ho parlato a lungo nelle fabbriche, delle malattie specifiche alla loro condizione, come la nevrosi, l’artrite deformante, le infezioni polmonari… Passo in seguito a una preparazione di tipo critico-analitico del personaggio, della sua psicologia: e questo mi porta a determinare l’atteggiamento generale che devo assumere nel film. Poi ci sono i normali rapporti dialettici che devono stabilirsi tra l’attore e il regista: discutiamo fino ad arrivare insieme ad avere la visione del problema da risolvere, essendo ovviamente inteso che è il regista in ultima analisi a decidere e a dirigere. […] Come fa un attore ad arrivare a rendere questo o quel personaggio è molto difficile da dire, è quasi impossibile perché io posso spiegare come lavoro, ma poi c’è sempre qualche cosa che non è puntualizzabile. (Gian Maria Volonté)
Massa Ludovico, detto Lulù, Lombardia, quasi Svizzera
«Massa Ludovico, detto Lulù, Lombardia, quasi Svizzera», è un operaio di trentuno anni con sedici anni di fabbrica sulle spalle, due intossicazioni da vernice e un’ulcera ciclicamente in agguato. Cottimista indefesso, il giorno in fabbrica, la notte a casa, in cucina, apatico davanti al televisore e svogliato nel mangiare. Da quando l’ex moglie Ginevra è fuggita, Lulù ha trovato un’altra compagna, una parrucchiera interpretata da una straordinaria Mariangela Melato, una donna con la quale da tempo non riesce più a fare l’amore. Assieme a loro vive il figlio di lei, Arturo, un bambino smaliziato, affezionato a Lulù, verso il quale prova compassione.
Il Militina
La vita ordinaria del nostro protagonista s’interrompe traumaticamente quando perde un dito al tornio, incidente che gli rivela la condizione di sfruttato nella quale ha vissuto sino ad allora. Ma è il Militina, un anziano collega finito in manicomio, interpretato dal grandissimo Salvo Randone, a svelargli definitivamente il non senso della sua esistenza e a prefigurargli il triste destino che lo attende. Quando ritorna in fabbrica non ha più desiderio di produrre, Lulù non è più lo stesso, vede ciò che gli sta attorno con nuovi occhi. Partecipa all’assemblea di fabbrica e si mette alla testa di un gruppetto di compagni ostile al sindacato. Dopo violenti scontri con la polizia è licenziato, cerca solidarietà da alcuni giovani studenti ma deluso, si accorge della loro pochezza ideologica. Abbandonato anche dalla compagna e apparentemente sconfitto, si avvia lentamente a riacquistare dignità e sensibilità di un essere umano.
Lulù sei felice?
Libero dalla schiavitù del cottimo, libero dalla parrucchiera che non gli permette di vedere la televisione in salotto, sembra finalmente avere rotto le catene imposte dalla società. Tuttavia “grazie” al sindacato Lulù può tornare in fabbrica. I messaggeri di quest’associazione che tutela gli interessi collettivi gli portano la lieta notizia nel cuore della notte. Lo buttano giù dal letto e non fanno che domandargli se sia felice, perché tanto felice non sembra. Il cottimo non esiste più, è stato abolito, ma non è una conquista sociale, è il passaggio a un’altra alienazione: la catena di montaggio. L’ultima scena mostra gli operai lavorare freneticamente tra il rumore assordante delle macchine. Lulù, ormai sull’orlo della follia, racconta un sogno: l’abbattimento di un muro del paradiso al di là del quale ci sono lui e tutti i suoi compagni ancora una volta condannati alla loro condizione.
L’operaio è semplicemente una creatura umana e dentro di lui passano molte delle scissioni che passano in ciascuno di noi […]in un certo senso, è quello che soffre di più tutte le contraddizioni, costretto com’è ad assumere un modello borghese dato che la società dei consumi lo obbliga per la sua stessa sopravvivenza a diventare un consumista, ad aiutare in qualche modo lo stesso sistema capitalista. Io raccontai quella che era la storia di tutti, di come in questa società non si possa vivere che nell’alienazione. (Elio Petri)
Lulù, sempre fuori posto
Così come in Indagine anche nel film La classe operaia va in paradiso Volonté è il protagonista assoluto. Vi sono numerose scene a due e di gruppo. Momenti differenti nei quali il protagonista appare sempre fuori posto: travolto dall’auto dell’ingegnere, colpito dalla celere, oppure davanti al televisore quando ne ostruisce la visione a un compagno che reclama «quadro!». Non mancano i momenti privati: quando prima di accendere la macchina “riscalda” i muscoli, e a casa, dove prima cataloga le sue misere proprietà e poi nella notte affronta, “uccidendolo”, lo zio Paperone gonfiabile, simbolo del consumismo e testimone muto della sua squallida vita. Infine ci sono i due assolo: nel primo quando nei locali della mensa spiega ai nuovi assunti che si è tutti in corsa verso lo striscione del traguardo; nel secondo quando durante l’assemblea dei lavoratori prende la parola per invitare i compagni alla lotta radicale contro i padroni.
Il volto è la maschera che il protagonista imbratta
Petri insiste con frequenza nei piani ravvicinati, nei primi piani, nei particolari anatomici degli operai e nei dettagli delle macchine. Il volto è la maschera che il protagonista si costruisce e imbratta per eccesso di adesione: nella prima parte del film lavora senza limiti, nella seconda sceglie di scioperare a oltranza. Si concede in modo così smisurato alla macchina, centro di sfogo delle sue pulsioni sessuali, da divenire impotente, da non avere più desiderio di far l’amore con Lidia. L’abilità di Volonté consiste appunto nel restituire gli stati d’animo più contrastanti, soprattutto attraverso la mimica del volto di cui è maestro.
Rossi, in una monografia dedicata a Elio Petri, elenca acutamente le diverse emozioni del personaggio:
Lulù trascorre dall’abbrutimento (il risveglio, il discorso sul corpo-fabbrica merda) alla paranoia (il ritmo del cottimo), al ridicolo (la sua esasperata cadenza lombarda “bianca”, fonicamente castrata), alla commozione (i rapporti con il figlio), alla disperazione (il licenziamento), alla solitudine (l’abbandono della donna con cui vive, dei compagni), alla follia infine (il racconto del sogno dell’abbattimento del “muro” agli altri compagni).
Il corpo come metafora della macchina
I gesti del personaggio non sono naturali, ovvero non sono archetipi della comunicazione umana, ma sono meccanici, ripetitivi, elementi causali del cottimista costretto alla macchina dieci ore al giorno. Al risveglio il cervello di Lulù non funziona, ma non basta fare toc toc sulla testa per riavviarlo. Il corpo come metafora della fabbrica, una simbiosi perfetta sino a che non si inceppa qualcosa, o si lascia un dito nel tornio. Quel dito che la scenografia di Dante Ferretti ci mostra nelle gigantografie appese sulle pareti della fabbrica. E’ lo stesso protagonista a raccontare che l’individuo è come la fabbrica. Il cervello sarebbe la direzione centrale che mette in movimento le mani, le braccia, la lingua; il cibo sarebbe la materia prima e lo stomaco la macchina che lo schiaccia.
Un pezzo un culo
Non avrai altro Dio all’infuori di me: il corpo dell’operaio esiste esclusivamente in funzione della macchina che diviene oggetto di un desiderio assoluto e sterile, una macchina che sostituisce l’organo sessuale femminile. «Un pezzo un culo, un pezzo un culo», urla Lulù per tenere alto il ritmo della sua produzione. Prima di cominciare a lavorare si scioglie i muscoli e si sgranchisce le ossa come un atleta prima della gara: «La vita è un traguardo, striscione, qui dentro siamo tutti in corsa».
La classe operaia (non) va in paradiso
La scena più celebre è quella in cui Lulù esce fisicamente dal suo gruppo per apprestarsi a un assolo di tre minuti circa. Petri colloca Volonté dietro a un microfono e davanti a una folla. Il personaggio Lulù essendo quasi afono prova ad aumentare l’ampiezza della propria voce durante il discorso, sforzo che determina la modifica dell’espressione facciale. A ciò si aggiunga la parlata sgrammaticata, ricca di vocaboli e frasi in lombardo. Il microfono, collocato più in basso, lo costringe ad arcuare leggermente la schiena e di conseguenza a insaccare la testa tra le spalle. Il respiro diviene affannoso e gli occhi osservano l’infinito in un’espressione di smarrita fissità. Volonté rivela sul volto di Lulù il terrore del presente e l’angoscia del futuro della classe operaia perché, come dice il protagonista, la pompa si è rotta e non c’è più verso di aggiustarla.