Da Gustavo Modena a Gian Maria Volonté

C’è un filo rosso che lega Gian Maria Volonté a Gustavo Modena e alla tradizione più illustre del nostro teatro.

 

Le radici ottocentesche di Gian Maria Volonté

Volonté rappresenta un caso anomalo nel panorama del cinema italiano e forse mondiale. Lo dimostra il fatto che la critica non sia stata capace  di ingabbiarlo in una categoria, in una tradizione. Molti si sono spesi alla ricerca del suo metodo e qui non ho intenzione di approfondire questo aspetto. Desidero però porre un interrogativo, e cioè se le sue peculiarità stilistiche abbiano radici ottocentesche e per questa ragione siano state poco comprese. In tal senso c’è un’interessante definizione di Corrado Augias apparsa nell’ottobre del 1971 nel settimanale «L’Espresso» in cui il giornalista definì  Volonté «talmente antico che si è persa la memoria del modello al quale risale».

Il Carro di Tespi.

Gian Maria Volonté era entrato in contatto con il “vecchio” teatro durante le esperienze preaccademiche.  Si aggregò per oltre un anno alla compagnia dell’anziano capocomico Mario Ruta e  poi con l’ottantenne Alfredo De Sanctis. In entrambi i casi si trattava di un modo di fare teatro che già nei primi anni Cinquanta la critica giudicava antico e superato. D’altronde nei primi anni del secondo dopoguerra non solo l’epoca dei grandi attori era già tramontata, ma si stava per affermare la figura del regista, per qualcuno il nuovo dittatore dello spettacolo.

 

Il teatro di Gian Maria Volonté

Il lavoro portato avanti in giovane età deve aver in Volonté inciso profondamente  se nel 1993, dopo aver vestito i panni del tiranno Banderas, affermò:

Nel cercar di restituire […] la figura stessa del tiranno c’è anche la preoccupazione (si sente, sono contento che sia così) di far trapelare un gusto, un modo di recitare che appartiene non a questo tempo ma ad altre epoche di lavoro di attori. Quindi in un’occasione come questa, a tanti anni di distanza, sono andato a rispolverare certe cose proprio per riproporlo come fosse un Carro di Tespi. Infatti […] è cinema ma è anche gran teatro.

Qual è quel modo di recitare che appartiene  ad altre epoche? La risposta è presente nel film stesso. Il dittatore è un «personaggio caleidoscopico, una marionetta storica» rappresentata in chiave grottesca. Non poteva essere altrimenti dato che il romanzo omonimo è scritto con la tecnica dell’esperpento, un linguaggio iperbolico, una visone dissacrante della realtà, percepita tra il lirico e il grottesco.

Il grottesco di Elio Petri

La recitazione adottata nel film di Garcia Sanchez  è in controtendenza rispetto alle pellicole interpretate da Volonté nella fase della maturità, dove fa ricorso a vie più interiori. Unica eccezione, la parte del direttore di giornale in Tre colonne in cronaca del 1990, dove l’attore dà al personaggio «un che di sfuggente, di inafferrabile e di ambiguo».

Se pensiamo al grottesco  è inevitabile pensare ad alcuni personaggi televisivi e cinematografici di Volonté: Rogozin, Caravaggio, Ramon Rojo, solo per citarne alcuni. Un posto d’onore meritano  inoltre l’operaio  Massa e il presidente “M”. A questo proposito Volonté in un’intervista ha detto: «Petri aveva una cifra che a me piace moltissimo, una cifra che oscilla tra l’espressionismo e il tentativo di fare uscire il cinema dalla palude del reale muovendo verso l’immaginario».

 

Si tratta di una corda recitativa che Volonté si porta dietro lungo tutta la carriera, a partire dagli anni del teatro. Ad esempio così De Feo definisce l’interpretazione  in La ballata del soldato Piccicò: «Gian Maria Volonté era Piccicò e lo ha fatto davvero un pesce fuor d’acqua, coi nervi a fior di pelle e continuamente in controtempo con l’ambiente che lo circonda». Dunque una recitazione antinaturalistica dovuta al fatto che l’attore «ha orrore del vero» e «il vero se lo reinventa», per dirla secondo una definizione di Petri.

Da Gustavo Modena a Gian Maria Volonté

Ha ragione Volonté a dire che questo modo di recitare non appartiene a questo tempo. Il grottesco viene da lontano, da Petrolini e ancora prima dal teatro dell’Ottocento, da Gustavo Modena  che ne fu il primo ispiratore. Il grande Modena visse tra il 1803 e il 1860 attraversando lunga parte del nostro risorgimento, a cui non fu estraneo. Fu un repubblicano convinto ed ebbe contatti frequenti con le organizzazioni rivoluzionarie, in particolare con la Giovane Italia e con lo stesso Mazzini. Partecipò attivamente ad alcune rivolte e per lungo tempo fu costretto all’esilio, prima lontano dalla penisola e poi  in Piemonte.  Visse l’ultima parte della sua vita a Torino, più precisamente a San Salvario, lo stesso borgo dove un secolo più tardi abiterà Volonté.

Non è improbabile che  Volonté abbia  empatizzato con le vicissitudini di quest’attore che coniugò l’impegno artistico a quello politico, con tutte le conseguenze del caso. D’altronde Volonté ne conosceva bene le vicissitudini attraverso l’Antologia del grande attore di Vito Pandolfi, «una raccolta di memorie e di saggi dei grandi attori italiani dalla riforma goldoniana ad oggi».

 

Vittorio Cottafavi e Gian Maria Volonté

 

A questo proposito riporto la testimonianza che mi diede anni fa Angelica Ippolito, ultima compagna di Volonté:

Lesse il libro di Pandolfi durante un viaggio che facemmo insieme. Gli piacque molto. Si parlava di questa grande differenza che c’è tra Gustavo Modena che è uno che ha contribuito a fare l’Unità d’Italia, quindi con un grande impegno civile, e Virgilio Talli, una specie di Romolo Valli che muoveva le fila di tutto il teatro italiano, quello che fece fuori la Duse per La figlia di Iorio e al suo posto vi mise la Gramatica. Chiaramente Gian Maria s’identificava più con Gustavo Modena che con Virgilio Talli. Gustavo Modena era proprio questo attore che scavalcava le montagne e sia lui sia Gian Maria sono vissuti entrambi in due periodi di grandi vicissitudini e sovvertimenti.

Volonté: «Vorrei essere Nerone».

A Morandini che gli chiedeva quale personaggio storico avrebbe voluto interpretare, Volonté rispose: «Nerone che bruciò Roma non perché fosse pazzo, ma perché aveva capito tutto». Una provocazione che ricorda da vicino ciò che Gustavo Modena scrisse in una lettera del 1836 nella quale sosteneva che il teatro «per correggerlo bisogna bruciarlo. Bruciar le tavole, bruciarne il morale, bruciarne…l’idea».

Il grottesco si inscriverebbe in questo desiderio irrealizzabile che alcuni attori hanno di cambiare l’esistente, è una reazione alla società contemporanea, alla perdita dell’aura, un modo di essere sul palcoscenico che accomuna Gustavo Modena, Petrolini, Benassi, Bene e pochi altri. É il filo rosso che lega Volonté alla tradizione più illustre del nostro teatro.

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