Nel 2010 ho raccontato la storia di Albertino Bonvicini, prima in un documentario poi in un libro pubblicato per Add editore.
Albertino Bonvicini: cominciamo dal principio
Nella seconda metà degli anni Cinquanta la famiglia Bonvicini viveva in via Filadelfia a Torino, nei pressi dell’allora Stadio Comunale. Nel 1958 nacque Albertino, due anni dopo il padre si rese irreperibile arruolandosi nella legione straniera. La madre, priva di qualunque sostegno economico e affettivo, prese la decisione di sistemare il bambino in collegio, prima all’Istituto Valle di Carmagnola, poi all’Istituto Teti di Ceriale. Nel novembre del 1966 Albertino fu trasferito all’istituto del Sacro Cuore di Gesù di Montaldo di Cerrina in provincia di Alessandria, più confortevole e vicino alla nuova residenza della mamma.
Silvana aveva appreso dell’esistenza di questo luogo da un volantino lasciato sul bancone di un bar di Gassino che frequentava abitualmente, il locale era gestito da una donna, madre di tre pregiudicati, uno dei quali, «il Moro», era il suo protettore, un uomo violento […]. Da circa un anno, dopo aver lavorato saltuariamente come parrucchiera, la vita di Silvana si svolgeva prevalentemente tra il bar di Gassino e il ponte sul Po di Chivasso dove attendeva i clienti. Nei pressi aveva preso in affitto un piccolo appartamento da Mariuccia, una sua cara amica, forse l’unica persona che in quegli anni turbolenti ha cercato di starle vicino. [1]Albertino Bonvicini, Fate la storia senza di me, a cura di Mirko Capozzoli, add editore, Torino, 2011.
La Casa del Sacro Cuore di Gesù
L’istituto era stato fondato nel 1961 da una signora milanese, vedova di un funzionario della questura. Il Centro di Tutela Minorile di Torino definì la struttura “una piccola comunità di non più di 15 ragazzi dove regnava un’atmosfera serena e adatta a sostituire, in parte, la famiglia perduta”. L’edificio aveva un aspetto rassicurante, all’interno c’era un’aula moderna per l’insegnamento, due dormitori con armadietti personali e servizi igienici a misura di bambino. La retta era di £ 25.000. L’ambiente era familiare e il tribunale minorile non ravvisò mai nulla di anomalo nel corso della lunga attività.
Quando Albertino vi arrivò si presentò spaurito. Sul corpo erano evidenti i segni di percosse che imputava a uno zio che altri non era se non «il Moro». Nei primi mesi di permanenza Albertino soffrì di crisi improvvise e tentò più volte la fuga per raggiungere la madre. Una visita specialistica rivelò disadattamento per le carenze affettive sofferte e un’intelligenza media-normale (ai limiti superiori) con un Q.I. 110. Nei verbali dell’istituto si legge: «L’accentuata irrequietezza psico-motoria, l’aggressività e la reattività, ostacolano l’instaurazione di rapporti umani e determinano una difficoltà di integrazione al gruppo […]».
La biglia
È qui a Montaldo di Cerrina che Albertino ha dato una brusca accelerata al proprio destino, ingoiando per gioco una biglia. Verrà ricoverato all’Ospedale di Casale Monferrato, e dopo aver manifestato segni di irrequietezza finirà nei gironi infernali manicomiali. Nel 1971 troverà una nuova famiglia ma senza riprendere i binari della normalità. Tra i protagonisti del movimento del Settantasette, nel 1981 sarà accusato da due pentiti di Prima Linea e arrestato.
References
↑1 | Albertino Bonvicini, Fate la storia senza di me, a cura di Mirko Capozzoli, add editore, Torino, 2011. |
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